I must confess that I was not exactly happy when Claude Jeancolas, director of Marie Claire Travel, commissioned me a report in Sudan for the magazine. The thing is, I could not understand why he would send my colleagues off to the Maldives, Brazil, Japan, Mauritius while he thought of Sudan for me. A Country that for years has been devastated by wars. So before accepting, I went to talk to him.
I liked Claude, I thought highly of him, and at the same time I was intimidated by him, probably because of his French way of looking down on you with a “judgmental” demeanor. But he was kind and very, very persuasive. He explained to me that my trip would be limited to the northern part of Sudan, which was safe, places that once belonged to lower Egypt, meaning ancient Nubia, which were home to the Nile, and that he really wanted me to tell about that difficult area because he knew, he said, that with my eyes I could tell it in the right way. Of course he convinced me, and when I accepted, Claude told me to send my photo ID to the editorial team in case I disappeared during the journey, and should he send someone looking for me…. Sometimes I detested his humor!!
The departure was taking place soon, so I immediately began to prepare, making many vaccinations, visas, and documenting myself on the journey as much as I could. Then…. I left. According to my visa I was a teacher, I could have never written “journalist”, because back then the Sudanese government did not want photos or articles about the country going around, which would highlight the poverty or needs of its people, for this, and for the fact that for them every street, market, bridge, building was a military objective, taking photographs was very complicated, even more so if it was a journalist doing it.
So my adventure as a teacher/photographer begins, towards the stony desert of Bayuda and the Nubian villages. Hotels didn’t exist, except in Khartoum, from where however I left immediately after visiting the National museum, so for the entire trip I slept in a small igloo tent that I would set up in the evening and disassembled in the morning, lifting it from the ground before folding it, so that the scorpions that had nestled underneath it, feeling the humidity of my body, could escape without stinging me.
It was not easy to repeat that operation every morning with a certain “peace of mind”, and to wash myself with a small basin of water, corresponding to about 4 glasses, but humans have the innate ability to get used to everything, and so for a while that became my daily routine.Day after day, accompanied by my guide Saif, a big and tall and very sweet man, I let myself be overwhelmed by that life full of hardships, but full of meaning and humanity. I remember well the exchange of glances with the women intrigued by my pale skin and blue eyes, and the children who took me by the hand and spoke to me in their language – incomprehensible to me, but absolutely translatable through their gestures. I remember the taste of the hot tea, drunk under a canopy of dry leaves, with the whole family gathered around waiting with some impatience to know if it was to my liking. And the children, many, who played with balls made of rags, exulting as if they were already seasoned players.
It is difficult to explain how a country so different from yours, so distant in terms of way of life and culture, can get under your skin with so much strength and arrogance. I don’t know how it happened, that a place so full of nothing, of military objectives and contradictions, changed my way of perceiving life and its priorities.
Sudan is by no means an Archaeological journey between temples and pyramids of ancient Black Pharaohs, or at least not only, but it is a journey among people, in desert landscapes, in the scorching heat, and at times unbearable. It is a journey into one’s soul. Because everything here is so polite and welcoming, albeit in total poverty, that you are no longer sure that your life back home is the real one. Suddenly it seems trivial, too full of needs, too ego-centered.
Of course to Claude I brought a report that also contained images of Archaeological Sudan, but the cut I gave to it was mainly dedicated to the people, because they are the ones who most stroke a chord in me, they looked at me as if I were a Martian, they were certainly not used to tourism, but they offered me all that little they had to make me feel at home, and I loved them. For ten days I felt part of an ancient world, in which man was still at the center of everything.
I dedicate this post to Claude Jeancolas who, since February 10th 2016, is no longer with us, thanking him warmly, wherever he is, for believing in me and for this time spent together.
Stefania Giorgi
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Confesso che non fui propriamente felice quando Claude Jeancolas, direttore di Marie claire Travel, mi commissionò un reportage in Sudan per il giornale. In effetti non riuscivo a comprendere come mai mandasse i miei colleghi alle Maldive, in Brasile, in Giappone, alle Mauritius e per me avesse pensato al Sudan. Un Paese che da anni è devastato da guerre. Così prima di accettare andai a parlare con lui.
Mi piaceva Claude, avevo nei sui confronti una grande stima e nello stesso tempo un pochino di soggezione probabilmente causata da quel suo modo, tutto francese, di guardarti dall’alto in basso con aria “giudicante”. Ma era gentile e molto, molto persuasivo. Mi spiegò che il mio viaggio sarebbe stato circoscritto alla parte nord del Sudan che era sicura, luoghi che anticamente appartenevano al basso Egitto ovvero l’antica Nubia, che ospitavano il Nilo e che lui voleva proprio me per raccontare quel luogo, non facile perché sapeva, mi disse, che io col mio occhio avrei potuto raccontarlo nel modo giusto. Naturalmente mi convinse e quando accettai Claude mi disse di mandare in redazione una mia fototessera in caso sparissi durante il viaggio e lui dovesse mandare qualcuno a cercarmi…. A volte detestavo il suo umorismo!!
La partenza era prevista a breve, così cominciai subito a prepararmi facendo moltissime vaccinazioni, visti e documentandomi sul viaggio quanto più potevo. Poi…. Partii. Secondo il mio visto ero una maestra, non avrei mai potuto scrivere giornalista, perché allora il governo Sudanese non voleva assolutamente che circolassero foto o articoli sul Paese che mettessero in evidenza la povertà o i disagi del suo popolo, per questo e per il fatto che per loro ogni strada, mercato, ponte, edificio era obiettivo militare fotografare era molto complesso tanto più se a farlo era un giornalista.
Così inizia la mia avventura da maestra/fotografa verso il deserto sassoso del Bayuda e i villaggi Nubiani. Non esistevano alberghi, a parte a Khartum da dove però sono ripartita immediatamente dopo aver visitato il museo Nazionale, perciò per tutto il viaggio ho dormito in una piccola tenda igloo che montavo la sera e smontavo al mattino sollevandola da terra prima di ripiegarla in modo che gli scorpioni che si erano annidati sotto, sentendo l’umidità del mio corpo, potessero scappare senza pungermi.
Non è stato facile ripetere quell’operazione ogni mattina con una certa “serenità” e lavarsi con una piccola bacinella d’acqua corrispondente a circa 4 bicchieri, ma l’uomo ha l’innata capacità di abituarsi a tutto e così quella diventò per un po’ la mia routine quotidiana.
Giorno dopo giorno accompagnata dalla mia guida Saif, un ormone grande e grosso e dolcissimo, mi sono lasciata travolgere da quella vita piena di disagi ma colma di significati e di umanità. Ricordo bene gli scambi di sguardi con le donne incuriosite dalla mia pelle chiara e dagli occhi azzurri e i bambini che mi prendevano per mano e mi parlavano nella loro lingua per me incomprensibile, ma assolutamente traducibile nella loro gestualità. Ricordo il sapore del tè bollente bevuto sotto una tettoia di foglie secche con tutta la famiglia riunita che aspettava con una certa impazienza di sapere se fosse di mio gradimento. E i bambini, tantissimi, che giocavano con palle fatte di stracci esultando come fossero già dei calciatori consumati.
E’ difficile spiegare come un Paese così diverso dal tuo, così distante come modo di vivere e per cultura, possa entrarti dentro con tanta forza e prepotenza. Non so come sia potuto succedere che un luogo così pieno di niente, di obiettivi militari e contraddizioni, abbia cambiato il mio modo di percepire la vita e le priorità.
Il Sudan non è affatto un viaggio Archeologico tra templi e piramidi di antichi Faraoni Neri, o per lo meno non solo, ma è un viaggio tra la gente, nei paesaggi deserti, nel calore cocente e a tratti insopportabile. E’ un viaggio nella propria anima. Perché ogni cosa qui è così garbata e accogliente seppur nella più totale povertà che non sei più sicuro che la tua vita a casa sia quella reale. Improvvisamente ti sembra futile, troppo piena di necessità, troppo ego riferita.
Naturalmente A Claude ho portato un servizio che contenesse anche immagini del Sudan Archeologico, ma il taglio che gli detti fu principalmente dedicato alle persone perché sono loro che più mi hanno colpito, guardavano me come fossi un marziano, d’altra parte non erano certo abituati al turismo, ma mi offrivano tutto quel poco che possedevano per farmi sentire a casa e io li ho amati. Per dieci giorni mi sono sentita parte di un mondo antico in cui l’uomo era ancora al centro di tutto.
Dedico questo post a Claude Jeancolas che dal 10 Febbraio 2016 non è più tra noi, ringraziandolo di cuore, ovunque lui sia, per la fiducia che ha avuto in me e per questo tempo trascorso insieme.
Stefania Giorgi